Il 10 giugno 1940 l’Italia fascista, guidata da Benito Mussolini, dichiarò guerra all’Inghilterra e alla Francia, entrando così nel secondo conflitto mondiale a fianco dell’Asse.

Italia, 1939

LA RESA DELL’ITALIA

Dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, nel luglio del 1943, e il successivo voto di sfiducia contro Mussolini da parte del Gran Consiglio del Fascismo, avvenuto il 25 dello stesso mese, il re Vittorio Emanuele III fece arrestare il dittatore e nominò un governo d’emergenza guidato dal Maresciallo Pietro Badoglio.

Dopo essere fuggito a Bari, sulla costa adriatica, e avervi stabilito la sede provvisoria del governo, il 3 Settembre 1943 Badoglio firmò un cessate-il-fuoco con le forze alleate e l’8 settembre successivo annunciò la resa.

LA REPUBBLICA DI SALÒ

Diversi giorni dopo che gli Italiani si erano arresi agli Alleati, un commando Tedesco agli ordini del Tenente Colonnello delle SS Otto Skorzeny liberò Mussolini e lo aiutò a raggiungere Salò, dove egli instaurò la cosiddetta Repubblica Sociale Italiana, un governo fantoccio di stampo fascista il cui quartier generale aveva sede nella cittadina sul lago di Garda. Nel frattempo, le forze armate tedesche occuparono gran parte del Nord Italia e continuarono a combattere contro gli Alleati e contro i partigiani della Resistenza insieme alle forze italiane rimaste fedeli al Fascismo, fino al momento della resa finale, il 2 maggio 1945.

L’ATTENTATO PARTIGIANO

Il 23 Marzo 1944 – giorno del 25° anniversario della fondazione del Partito Fascista di Mussolini – 17 partigiani dei Gruppi d’Azione Patriottica (GAP) guidati da Rosario Bentivegna fecero esplodere un ordigno in Via Rasella, a Roma, proprio mentre passava una colonna di militari tedeschi.

I partigiani, che erano legati al movimento clandestino comunista italiano, riuscirono poi ad evitare la cattura disperdendosi tra la folla che si era radunata sul luogo dell’attentato. L’unità militare che era stata presa di mira - un battaglione appartenente all’Undicesima Compagnia, il Reggimento di Polizia Bozen - era composto per la maggior parte da militari di lingua tedesca provenienti dalla zona del Sud Tirolo, precedentemente appartenuta all’Austria, poi annessa all’Italia con il trattato di St. Germain nel 1919 e infine passata sotto il controllo della Germania quando i Tedeschi avevano occupato l’Italia, nel 1943.

Nell’attentato ventotto soldati morirono immediatamente; altri 5 nei giorni seguenti. Il bilancio finale fu poi di 42 militari uccisi e di alcuni feriti tra i civili presenti al momento dell’attentato.

LA RAPPRESAGLIA

La sera del 23 marzo, il Comandante della Polizia e dei Servizi di Sicurezza tedeschi a Roma, tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, insieme al comandante delle Forze Armate della Wermacht di stanza nella capitale, Generale Kurt Mälzer, proposero che l’azione di rappresaglia consistesse nella fucilazione di dieci italiani per ogni poliziotto ucciso nell’azione partigiana, e suggerirono inoltre che le vittime venissero selezionate tra i condannati a morte detenuti nelle prigioni gestite dai Servizi di Sicurezza e dai Servizi Segreti. Il Colonnello Generale Eberhard von Mackensen, comandante della Quattordicesima Armata - la cui giurisdizione comprendeva anche Roma - approvò la proposta.

Si racconta che quando a Hitler venne comunicata la notizia dell’uccisione dei militari, quella sera, egli reagì ordinando la distruzione totale di Roma. Successivamente, gli imputati accusati del massacro, dopo la guerra, testimoniarono come Hitler avesse perlomeno espresso parere pienamente favorevole al piano di Kappler e Mälzer. Tuttavia, altre prove storiche portano a pensare che Hitler abbia perso presto interesse per tutta la questione, lasciando la decisione finale al Colonnello Generale Alfred Jodl, in quel momento Comandante del Personale Operativo degli Alti Comandi delle Forze Armate (Oberkommando der Wehrmacht, or OKW).

Qualunque fosse il livello di coinvolgimento da parte di Hitler, il Maresciallo Albert Kesselring, Comandante in Capo dell’Esercito schierato a Sud, presumibilmente interpretò la reazione iniziale di Hitler come segno del suo appoggio e della sua autorizzazione alla rappresaglia proposta subito dopo l’attentato.

LE VITTIME DELLE FOSSE ARDEATINE

Il giorno seguente, 24 marzo 1944, militari della Polizia di Sicurezza e della SD in servizio a Roma, al comando del Capitano delle SS Erich Priebke e del Capitano delle SS Karl Hass, radunarono 335 civili italiani, tutti uomini, nei pressi di una serie di grotte artificiali alla periferia di Roma, sulla via Ardeatina. Le Fosse Ardeatine, che originariamente facevano parte del sistema di catacombe cristiane, vennero scelte per poter eseguire la rappresaglia in segreto e per occultare i cadaveri delle vittime.

Priebke e Hass avevano ricevuto l’ordine di selezionare le vittime tra i prigionieri che erano già stati condannati a morte, ma il numero di prigionieri in quella categoria non arrivava ai 330 necessari alla rappresaglia.

Per questa ragione, gli ufficiali della Polizia di Sicurezza selezionarono altri detenuti, molti dei quali arrestati per motivi politici, insieme ad altri che o avevano preso parte ad azioni della Resistenza, o erano semplicemente sospettati di averlo fatto. I Tedeschi aggiunsero al gruppo già selezionato per il massacro anche 75 prigionieri ebrei, molti dei quali erano detenuti nel carcere romano di Regina Coeli. Per raggiungere la quota necessaria, essi rastrellarono anche alcuni civili che passavano per caso nelle vie di Roma. Il più anziano tra gli uomini uccisi aveva poco più di settant’anni, il più giovane quindici.

Quando le vittime vennero radunate all’interno delle cave, Priebke e Hass si accorsero che ne erano state selezionate erroneamente 335 invece che le 330 previste dall’ordine di rappresaglia. Le SS però decisero che rilasciare quei 5 prigionieri avrebbe potuto compromettere la segretezza dell’azione e quindi decisero di ucciderli insieme agli altri.

L’ECCIDIO ALL’INTERNO DELLE FOSSE ARDEATINE

I prigionieri selezionati furono condotti all’interno delle grotte con le mani legate dietro la schiena. Già prima di raggiungere il luogo dell’esecuzione, Priebke e Hass avevano deciso di non utilizzare il metodo tradizionale del plotone di esecuzione; invece, agli agenti incaricati dell’eccidio venne ordinato di occuparsi di una vittima alla volta e di spararle da distanza ravvicinata, in modo da risparmiare tempo e munizioni. Gli ufficiali della polizia tedesca portarono quindi i prigionieri all’interno delle fosse, obbligandoli a disporsi in file di cinque e a inginocchiarsi, uccidendoli poi uno a uno con un colpo alla nuca.

Mentre il massacro continuava, i militari tedeschi cominciarono a obbligare le vittime a inginocchiarsi sopra i cadaveri di quelli che erano già stati uccisi per non sprecare spazio.

Quando il massacro ebbe termine, Priebke e Hass ordinarono ai militari del genio di chiudere l’entrata delle fosse facendola saltare con l’esplosivo, uccidendo così chiunque fosse riuscito per caso a sopravvivere e seppellendo allo stesso tempo i cadaveri.

I PROCESSI DEL DOPOGUERRA

Dopo la fine della guerra le autorità alleate processarono alcuni dei responsabili dell’Eccidio delle Fosse Ardeatine.

Nel 1945, un tribunale inglese processò il Generale von Mackensen e il generale Mälzer per la parte avuta nel massacro e li condannò a morte. Entrambi fecero appello per ridurre la pena e vinsero. Von Mackensen venne rilasciato nel 1952. Mälzer invece morì in prigione quello stesso anno.

Nel 1947, un tribunale britannico riunito a Venezia condannò a morte il Maresciallo Kesselring sia per l’eccidio, sia per aver incoraggiato l’uccisione di civili. Nel 1952, tuttavia, Kesselring fu graziato.

Nel 1948, un tribunale militare italiano condannò anche Herbert Kappler all’ergastolo per il ruolo avuto nell’eccidio. Nel 1977, la moglie di Kappler riuscì a far fuggire il marito, malato terminale di cancro, da un ospedale prigione a Roma e a farlo tornare in Germania. Le autorità dell’allora Repubblica Federale Tedesca si rifiutarono di estradare Kappler a causa della sua salute ed egli morì l’anno seguente.

Erich Priebke trascorse i mesi immediatamente successivi alla fine della guerra prigioniero degli Inglesi, ma riuscì poi a fuggire e a rifugiarsi in Argentina, dove visse per quasi cinquant’anni da uomo libero. Nel 1994, durante un’intervista con il giornalista dell’ABC, Sam Donaldson, Priebke parlò apertamente del proprio coinvolgimento nell’eccidio delle Fosse Ardeatine, dimostrando scarso rimorso per le proprie azioni. La trasmissione diede nuovo impeto all’azione di alcuni funzionari, sia in Argentina che in Italia, affinché il caso contro di lui e contro il suo collega e ufficiale delle SS Karl Hass venisse riaperto. Nel 1995 le autorità giudiziarie italiane e tedesche collaborarono per facilitare l’estradizione di Priebke in Italia.

Nonostante alcune udienze preliminari avessero giudicato il reato prescritto, Priebke e Hass vennero alla fine processati in Italia, nel 1997. Il tribunale italiano condannò entrambi, Priebke a quindici anni e Hass a dieci, ma a causa degli anni già trascorsi in prigione, Hass venne liberato subito e la condanna a Priebke fu ridotta. Priebke e il suo avvocato si appellarono e, come risultato, la corte d’appello militare italiana iniziò un nuovo processo nel 1998, al termine del quale Priebke venne condannato all’ergastolo. Quindici anni più tardi, nell'ottobre del 2013, mentre sta scontando la pena agli arresti domiciliar, Priebke muore.

IL MONUMENTO COMMEMORATIVO

Il luogo dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, alla periferia di Roma, è oggi monumento nazionale in ricordo delle vittime.